Heaven IV - Seatiger Island
06/09/2398 - ore 17.32 - D.S. 75681.45
Dewey Finn si stava godendo ogni attimo di quel paradiso, un'oasi di pace inaspettata dopo anni trascorsi a fuggire da una minaccia all'altra. Finalmente libero dal ronzio costante dei motori a impulso e dal peso delle sue responsabilità , poteva sentire il ritmo lento e rilassante delle onde che s'infrangevano sulla spiaggia. Le sue dita affondavano nella sabbia bianca e calda, un piacevole contrasto con il metallo freddo della plancia. Sopra di lui, il sole arancione di Heaven IV bagnava il paesaggio di una luce calda e ambrata, facendogli quasi dimenticare di essere a milioni di anni luce dalla sua vera casa.
Il Comandante aveva scavato una buca nella sabbia, modellandola con cura con le mani e i piedi fino a farla diventare una vera e propria "poltrona da spiaggia". Seduto lì, si godeva il momento. Sorseggiava una bevanda dal sapore effervescente e fruttato, che gli ricordava un po' una soda gassata della Terra. Le onde si infrangevano sulla riva con un ritmo lento e costante, cullandolo in un'atmosfera di pace. Il suono era accompagnato dal fruscio leggero delle foglie di palma, una melodia rassicurante che sembrava escludere ogni altro rumore.
Era il momento perfetto.
Nessuna minaccia aliena.
Nessun allarme che suonasse.
Una tranquillità così profonda che aveva quasi un sapore tangibile. Non era la calma tesa e finta che si trovava negli intervalli tra un problema e l'altro, ma una vera sensazione di sicurezza che si infiltrava in ogni cellula del suo corpo.
Dewey si lasciò andare, la schiena affondata nella sabbia calda. Chiuse gli occhi e si concentrò solo su quel momento, assorbendo la pace. Nella sua mente, costruiva un futuro, un sogno che osava a malapena sperare. Forse un giorno avrebbero potuto stabilirsi lì, in un mondo che li avrebbe accolti senza chiedere nulla in cambio, un luogo dove la vita era semplice, senza minacce aliene o fughe disperate.
Poi, un suono improvviso, acuto e penetrante, ruppe il silenzio. Non era un allarme della nave, ma un fischio assordante che sembrava provenire dall'interno della sua testa.
L'aria divenne gelida, un freddo che non era solo fisico, ma che gli strinse la gola e i polmoni. La sabbia calda che aveva avvolto le sue mani svanì, sostituita da un freddo e inospettabile pavimento di legno sotto il suo corpo. Dewey aprì gli occhi e il paradiso era svanito. Non c'era più la spiaggia, né l'oceano, ma si trovava su un palco, illuminato da un fascio di luce accecante. L'odore del mare era svanito, sostituito da un'aria pesante e viziata. Di fronte a lui, un mare di facce in ombra lo fissava, e il silenzio fu rotto da un coro di fischi e di risate. Una voce interiore, tagliente e spietata, si fece strada nella sua mente.
*Non sei abbastanza bravo...*
*Non sei abbastanza intelligente...*
*Non sei abbastanza...*
*...non sarai mai abbastanza.*
Il palcoscenico si trasformò, e i volti anonimi della folla si fecero più chiari, emergendo dall'ombra come immagini nitide. Non erano sconosciuti, ma volti che Dewey conosceva fin troppo bene.
Sulle prime, Dewey vide solo il volto del Capitano Kenar, l'espressione sul suo viso delusa, quasi addolorata, che gli si stringeva allo stomaco. La disapprovazione profonda nei suoi occhi non era solo per un errore, ma per un fallimento personale.
Anena era in piedi accanto al Capitano, una figura silenziosa e rassicurante che sembrava assorbire il peso delle loro preoccupazioni. Sul viso del consigliere c'era un'espressione di profonda tristezza, come se avesse già percepito la fine amara della loro avventura. Scuoteva la testa lentamente, quasi impercettibilmente, con gli occhi che esprimevano una rassegnazione infinita. Percepiva il fallimento di Dewey, non come un singolo errore, ma come un destino inevitabile. Come se avesse già saputo che tutto sarebbe andato a finire male, che Dewey aveva fallito prima ancora di iniziare, e che tutti i suoi sforzi non sarebbero stati sufficienti.
A poca distanza dal Capitano Kenar, si trovava la dottoressa Althea Sheva, il suo volto betazoide velato da un'espressione di profonda compassione. Non c'era giudizio nei suoi occhi, ma una tristezza che trafiggeva Dewey. Era una compassione così intensa da far male, come se stesse leggendo ogni fallimento impresso nella sua mente e stesse sentendo lei stessa il dolore della sua inadeguatezza.
Poi la visione si espanse, e non erano più solo il Capitano, la dottoressa Sheva e il consigliere Anena. I loro volti si moltiplicarono, formando una giuria silenziosa. C'era l'Ingegnere Capo Droxine Carelli, i suoi occhi che lo scrutavano come se fosse un pezzo di macchinario rotto e inutile. C'era il Capo della Sicurezza Anna Maria Calvi, che lo guardava con il freddo disprezzo di un soldato per un codardo. Tutti lo fissavano, le loro espressioni un misto di disprezzo e pietà .
L'aria si fece gelida, un freddo che gli penetrava fin nelle ossa. Un'angoscia profonda lo avvolse, soffocandolo. Si rese conto che non era più su un palco, ma in un'aula di tribunale, e il suo cuore si strinse. Il giudice e la giuria non erano degli estranei, ma le persone che lo avevano sostenuto e protetto. I suoi amici.
La figura del Capitano Kenar, con l'espressione di delusione che gli solcava il viso, avanzò al centro dell'aula di tribunale.
"Comandante Finn" disse Kenar con una voce che risuonava profonda e piena di rimpianto "Lei è accusato di negligenza, di non aver saputo proteggere l'equipaggio, ma soprattutto di non aver mai posseduto le qualità richieste per il suo incarico. Era il mio Primo Ufficiale, il mio 'Numero Uno'. Mi sono fidato di lei, e lei mi ha tradito."
Dewey sentì le lacrime agli occhi "Ma Capitano..." sussurrò, con la voce rotta dall'emozione. "Ho sempre fatto del mio meglio!"
Kenar si limitò a scuotere la testa "Il meglio non è mai abbastanza, Comandante. Non in un universo come questo. Lei non era pronto per questo ruolo. Non lo è mai stato."
Al suo fianco, la dottoressa Sheva si avvicinò e lo guardò con un misto di tristezza e compassione "Dewey" mormorò "la sua mente è un'angoscia costante. È una ferita aperta che non si rimarginerà mai. Non è una speranza, ma una prigione. E ora... è il momento di affrontare le conseguenze delle sue scelte"
La visione si intensificò e la folla si fece più vicina, un mare di visi accusatori che lo stringevano da ogni lato. Dewey si sentì circondato da un'angoscia profonda, un peso che lo schiacciava e gli toglieva il respiro. Sentì la sua mente sul punto di crollare, di frantumarsi sotto il peso di tutta quella delusione.
Alla fine, fece l'unica cosa che gli venne in mente, l'unica che aveva un senso per lui in quel momento: urlò. Urlò con tutta la forza che aveva in corpo, un grido che non era di rabbia, ma di dolore e disperazione.
All'improvviso, il freddo pavimento di legno svanì e il calore della sabbia tornò a riempirgli le dita. L'odore acre e viziato si dissolse, sostituito dall'aria salmastra e dal profumo della vegetazione aliena. Il fischio assordante cessò. Dewey aprì gli occhi e, con un respiro profondo e tremante, si ritrovò di nuovo lì, su quella spiaggia, ad osservare le onde che si infrangevano sulla riva.
Era salvo.
Per ora.
Heaven IV - Seatiger Island, Laguna isolata
Contemporaneamente
Althea Sheva si era allontanata dal gruppo, preferendo la solitudine di una piccola laguna protetta dalle fronde giganti di palme aliene che formavano una sorta di anfiteatro naturale. Lì, il fragore lontano delle onde si smorzava in un sussurro appena percepibile, un sottofondo discreto che non disturbava la sua ricerca di tranquillità .
Da Betazoide, la sua mente era un ricettore finemente sintonizzato sulle emozioni degli altri, un canale costantemente aperto che assorbiva le ansie, le speranze e le tensioni dell'equipaggio. Quella connessione, di solito fonte di forza, in quel momento era un peso. Aveva disperatamente bisogno di silenzio, non solo acustico, ma mentale.
L'aria era tiepida e densa, carica del profumo inebriante e dolce della vegetazione aliena, una fragranza che si mescolava al sentore salmastro dell'oceano. L'acqua della laguna era incredibilmente limpida e calma, una superficie specchiata che rifletteva le nuvole arancioni e rosa che si muovevano lente nel cielo.
Si sedette sulla sabbia soffice, lasciandosi cadere in un modo che non faceva da mesi, come se ogni muscolo del suo corpo avesse deciso di sciogliersi all'unisono. Chiuse gli occhi, concentrandosi sul nulla, un vuoto mentale che solo lei, con la sua abilità telepatica, riusciva a raggiungere.
In quell'istante, si liberò del carico emotivo dell'equipaggio. Non c'era l'ansia del Capitano, l'insicurezza di Finn, il dolore di Anna. C'era solo un'oasi di pace che non provava da mesi, un'oasi che le permetteva di respirare senza la costante pressione di dover "sentire" le emozioni degli altri. Il suo volto, di solito teso, si rilassò, e un sorriso le affiorò sulle labbra, genuino e radioso.
Per un istante, si sentì completamente sola, ma in un modo positivo, senza il peso delle aspettative e delle paure degli altri. Era la sua solitudine, una solitudine scelta, non imposta, che le permetteva di essere se stessa senza essere un "ricettore" costantemente attivo.
Il momento di pace di Althea, tuttavia, svanì in un istante, squarciato da un'ondata di emozioni così intense e caotiche da farla tremare. Non era il rumore mentale familiare del suo equipaggio, ma una cacofonia assordante che la spaventava. Si alzò in piedi di scatto, con gli occhi spalancati, e l'ambiente intorno a lei si dissolse. Il calore del sole svanì, e l'aria si fece gelida, un freddo che le penetrava fin nelle ossa.
La spiaggia, la laguna, il profumo dolce della vegetazione: tutto scomparve, sostituito dal familiare odore di metallo e ozono della nave. Si ritrovò in una plancia della USS Seatiger completamente vuota, illuminata solo dalle flebili luci delle console. Il silenzio era rotto solo da un ronzio sommesso, un suono che non le dava pace ma che le faceva venire la pelle d'oca. Cercò i suoi compagni, ma non c'era nessuno. La sua mente, un tempo una rete inestricabile di connessioni empatiche, era ora una tela strappata. Tentò di raggiungere Kenar con la sua mente, ma non riuscì a percepire nulla. La sua empatia, la sua unica forza, non funzionava. Era cieca, sorda e muta, persa in un vuoto che la faceva tremare.
In preda al panico, si guardò intorno, i suoi occhi che si muovevano freneticamente da una parte all'altra. I monitor erano spenti, le console erano silenziose. Era completamente sola. Un dolore acuto e profondo la colpì, una sensazione di totale isolamento che la faceva tremare. Era un dolore che non aveva mai provato prima, una solitudine così intensa che le sembrava di cadere in un vuoto senza fine.
Poi, le facce dei suoi compagni apparvero sui monitor, uno dopo l'altro.
Erano i volti di Kenar, di Finn, di Droxine, di Anna e di Anena. Ma erano solo immagini statiche. Erano immobili, privi di vita e di emozione, i loro occhi come vetri rotti. La loro presenza non era una consolazione, ma un'angoscia ancora più profonda.
Fu solo allora che un'idea si creò nella mente di Althea: non erano solo le sue capacità di sentire che erano andate perdute, ma la sua stessa essenza, la sua identità di Betazoide che era sempre stata definita dall'empatia. Senza quella connessione, l'universo intorno a lei era diventato un guscio vuoto, privo di senso, un'ombra pallida e fredda della realtà .
Lei era solo un guscio vuoto, senza nessun spessore.
L'angoscia di Althea crebbe, stroncando sul nascere qualsiasi barlume di speranza. La plancia che un tempo risuonava della vita dell'equipaggio, ora era un mausoleo. Le sue mani, che di solito si muovevano con la grazia di una danzatrice, ora erano rigide, come se il freddo avesse raggiunto anche i suoi muscoli.
Fece alcuni passi, sperando di sentire l'emozione di Droxine, il conforto di Anena. Nulla. Era un fantasma in un'eco di ciò che era stato. L'unica cosa che percepiva era un dolore così profondo che le si stringeva allo stomaco.
Le dita di Althea si mossero lentamente verso i monitor spenti, come se potessero risvegliare l'equipaggio con un tocco. Toccò lo schermo che mostrava il volto di Finn, un ragazzo ottimista con il cuore pieno di speranza. Ma il volto sul monitor era solo un guscio vuoto, privo di vita. Il suo sorriso era una maschera di cera.
Poi, toccò lo schermo che mostrava il Capitano Kenar, un uomo che portava il peso di tutto l'equipaggio sulle sue spalle. Ma ache il suo volto era solo un riflesso spento, la sua espressione congelata per sempre.
Fu in quel momento, in un lampo accecante di orrore, che la realizzazione la colpì.
Le sue capacità non erano scomparse. Stavano funzionando perfettamente. La sua mente non era isolata.. era il contrario. Stava percependo la verità , un'angoscia così profonda da non poterla accettare.
I suoi compagni non erano fantasmi. Erano morti.
E lei... lei era rimasta sola, l'ultima sopravvissuta di un massacro silenzioso di cui non ricordava nulla ma poteva constatarne il risultato.
La consapevolezza la colpì con la forza di un'onda anomala, un orrore così profondo da farla vacillare. Era sola. In quell'universo immenso e sconosciuto, era l'unica sopravvissuta, destinata a vagare da sola fino alla morte. Un brivido gelido le percorse la schiena, e la sua mente, incapace di sopportare un peso così grande, minacciò di frantumarsi.
Poi, un suono familiare e inaspettato trafisse quel silenzio mortale: un urlo disperato, che Althea riconobbe immediatamente. Non era un suono privo di emozioni, ma un'esplosione di panico e dolore. Era l'urlo di Finn.
Quel suono la risvegliò. L'incubo svanì, e il mondo tornò a essere quello di prima. Si ritrovò sulla spiaggia, il calore del sole sulla pelle e l'odore salmastro del mare. Si sentì invasa da un'ondata di sollievo così grande che le fece mancare il fiato.
L'urlo di Finn si ripeté, e Althea lo sentì. Non lo percepì solo con le orecchie, ma con ogni fibra del suo essere. Non era un fantasma, non era un'eco di un passato perduto.
Era reale.
E il suo cuore, che poco prima era un guscio vuoto, tornò a battere, pieno di speranza. Si lanciò di corsa, spingendosi con le gambe, verso la direzione del suono. Aveva un solo pensiero in mente: trovare Finn.
Heaven IV - Seatiger Island, Insenatura rocciosa
Contemporaneamente
Anna Calvi si era allontanata dall'accampamento per trovare un momento di pace e solitudine. Aveva bisogno di riflettere sulle sue emozioni turbolente, un groviglio di sentimenti che non riusciva a districare. Il suo cammino l'aveva portata a un'insenatura rocciosa, dove le onde si infrangevano con un rumore dolce e ritmato, una melodia rassicurante che la faceva sentire a casa, lontana dalle preoccupazioni della nave.
Si era seduta su una roccia liscia, godendosi il momento. Il vento le scompigliava i capelli e l'odore del mare le riempiva le narici, un profumo salmastro e fresco che le dava un senso di calma e di sicurezza. L'aria era tiepida e il sole le scaldava la pelle, un'oasi di pace in un universo che le sembrava sempre più ostile.
Era il momento perfetto per riflettere, per dare un nome ai sentimenti che provava per Anena. Non era solo amicizia, ma qualcosa di più profondo, qualcosa che la spaventava e l'affascinava allo stesso tempo. Si rese conto, con un brivido, che le sue paure erano come fantasmi: la paura di non essere abbastanza, la paura di fallire e, soprattutto, la paura di perdere le persone che amava.
Era sicura di una cosa sola: non avrebbe lasciato che qualcosa o qualcuno le portasse via la sua nuova famiglia. Non dopo aver quasi perso Droxine e Anena. La loro fuga e la loro sopravvivenza le avevano dato un senso di appartenenza che non aveva mai provato prima, e quel legame era diventato la sua ancora di salvezza in quell'universo immenso e sconosciuto.
Improvvisamente, un vento gelido la investì, portando con sé un odore di polvere e sangue che le fece venire la pelle d'oca. Quel profumo dolce e salmastro del mare svanì, sostituito da un fetore metallico e nauseabondo. Il rumore ritmato delle onde si trasformò in un silenzio assordante, rotto solo da un ronzio sommesso e inquietante.
La luce calda e arancione che le scaldava la pelle svanì, sostituita da una luce fioca e grigia, un'illuminazione morente che faceva sembrare tutto più freddo e vuoto. La roccia liscia su cui era seduta si trasformò in un pavimento di acciaio freddo e scivoloso. Si guardò intorno e capì con un brivido agghiacciante: non era più su una spiaggia, ma in un corridoio della USS Seatiger, devastato da un attacco.
Un gemito strozzato le sfuggì dalle labbra. Anna barcollò in avanti, le gambe pesanti come piombo, il rumore dei suoi passi che echeggiava in quel silenzio di tomba. Qualcosa inciampò sotto i suoi piedi. Abbassò lo sguardo e vide il corpo senza vita di un sottufficiale della sicurezza, un ragazzo che aveva scherzato con lei solo poche ore prima. La sua uniforme era lacerata, il volto contorto in un'espressione di puro terrore.
L'orrore le si strinse alla gola, ma l'istinto la spinse avanti. Lì, in fondo al corridoio, vide le figure di Droxine e Anena. Il consigliere era schiacciato contro la parete, il volto pallido, gli occhi spalancati per un terrore così intenso da squarciargli l'anima.
"Anna!" urlò, la sua voce strozzata "Aiutaci!"
Droxine era a terra, a poca distanza, immobile, e l'unica cosa che si muoveva era una figura scura, una presenza invisibile che minacciava i due. Anna tirò fuori il phaser, ma le sue mani tremavano, la sua forza era svanita. Si sentiva impotente, un'ombra di ciò che era stata.
"Non lasciarci!" la voce di Anena si fece più debole.
La figura invisibile si fece più vicina, e Anna si sentì come una statua, incapace di muoversi.
"Perché non ci hai protetto?" la voce di Droxine, che aveva una nota di rimprovero, le perforò l'anima.
Le parole erano come un veleno, che le si spargeva nelle vene, facendola sentire colpevole di un crimine che non aveva commesso. La figura invisibile sollevò la sua mano scura, che era come un'ombra, e la sua mano si posò sul collo di Anena, e il consigliere ansimò. Il suo volto, un tempo pieno di vita e di gentilezza, si fece pallido e spento, un'espressione di orrore che lo sfigurava. I suoi occhi, che di solito erano uno specchio di compassione, ora erano vuoti, come se il suo spirito fosse stato rubato, lasciando dietro di sé solo un guscio vuoto.
"Anna!" l'ultima parola di Anena fu un sussurro. "Ti prego... ti prego, salvaci!"
La sua voce, un tempo così piena di vita, si affievolì fino a diventare un sussurro, un suono quasi impercettibile che si perse nel silenzio mortale del corridoio. L'ultima cosa che Anna vide fu il suo volto che si trasformava, le linee morbide che si indurivano in una maschera di orrore, i suoi occhi che si spalancavano e poi, in un istante, si spegnevano, come se la sua anima fosse stata strappata via, lasciando dietro di sé solo un guscio vuoto e senza vita.
"È colpa tua, Anna," le parole di Droxine erano un'eco che risuonava nella sua mente "Sei stata una codarda. La tua paura ci ha uccisi."
La figura invisibile si rivolse a Droxine, e il suo volto divenne una maschera di orrore, e i suoi occhi si spalancarono, e poi... il buio.
Anna si ritrovò di nuovo in quel corridoio ma da sola. Il silenzio del luogo era rotto solo da un ronzio sommesso e inquietante. Il terrore si fece strada nel suo cuore.
Il corridoio era deserto, e l'unica cosa che si sentiva era il ronzio sommesso dell'aria condizionata. L'atmosfera era fredda, un freddo che le penetrava fin nelle ossa. Si guardò intorno, e vide che le figure invisibili erano sparite, ma che sul pavimento c'erano due corpi, senza vita, uno accanto all'altro.
Anna si avvicinò, il cuore che le batteva forte nel petto.
Il volto di Droxine era pallido, la sua espressione contorta dal dolore e dall'orrore. L'altro corpo era quello di Anena. Il suo volto era sereno, quasi in pace, ma i suoi occhi erano spenti, come se il suo spirito fosse stato rubato. Anna si inginocchiò accanto a lui, e sentì un dolore così profondo che le si strinse lo stomaco. La sua più grande paura si era avverata.
Aveva fallito.
Era sola, con i corpi dei suoi amici, e la sua coscienza che la tormentava, un incubo che non sarebbe mai andato via. Poi, un suono familiare e inaspettato trafisse quel silenzio di tomba: un urlo disperato, che Anna riconobbe immediatamente. Non era un suono privo di emozioni, ma un'esplosione di panico e dolore. Era l'urlo di Finn.
Quel suono la risvegliò. L'incubo svanì, e il mondo tornò a essere quello di prima. Chiuse gli occhi per un attimo poi tirò un sospiro di sollievo. Non aveva idea di cosa fosse successo ma era probabile che altri avessero avuto la stessa esperienza, quindi si voltò e si diresse nella direzione del rumore.
Heaven IV - Seatiger Island, Promontorio roccioso a picco sul mare
Contemporaneamente
Jason Queen si era inerpicato su un promontorio roccioso che dominava la costa, un luogo perfetto per posizionare i suoi sensori e raccogliere campioni geologici del pianeta. Voleva analizzare la composizione del terreno, la sua storia, ma soprattutto, aveva bisogno di un momento di isolamento logico. Seduto su una sporgenza levigata dal vento, sentiva la brezza marina che gli scompigliava i capelli e l'aria fresca e salmastra che gli riempiva i polmoni. Sotto di lui, le onde si infrangevano con un ritmo calmo e prevedibile, un suono rassicurante che la sua mente analitica apprezzava. Per un attimo, si sentì completamente in pace, immerso nell'ordine del mondo naturale, lontano dalle variabili imprevedibili della nave.
Questa non era solo una semplice calma, ma la pace dell'ordine. Era la sensazione di essere un piccolo ingranaggio in un meccanismo cosmico perfetto. La sua mente, che di solito era un motore costantemente acceso, si placò. Poteva quasi percepire le leggi della fisica in azione, il calcolo della gravità che teneva il promontorio ancorato al pianeta, la formula del vento che gli scompigliava i capelli. Per un istante, si sentì in perfetta sintonia con l'universo, la sua mente che si fondeva con l'armonia di un codice perfetto.
Poi, un suono improvviso, acuto e penetrante, ruppe l'armonia. Non era il rumore naturale della spiaggia, ma un fischio assordante che gli perforò le orecchie, così intenso da fargli vibrare le ossa del cranio. Una cacofonia di suoni e di rumori che non riusciva a identificare, che lo avvolgeva e lo soffocava.
Il mondo intorno a lui si frantumò. Non era una rottura fisica, ma un crollo totale della realtà come la conosceva. La stabilità della roccia, la coerenza del cielo e del mare: tutto si dissolse in un lampo di luce accecante.
Il promontorio roccioso su cui era seduto si dissolse in un vortice di numeri e di equazioni matematiche impazzite, linee di codice verde e blu che danzavano caoticamente nel suo campo visivo. Un'illusione ottica che gli fece venire la pelle d'oca, un'immagine che non aveva senso. Ma era reale, una sensazione così profonda e così terrificante da farlo tremare.
Gli alberi della foresta sottostante si trasformarono in complesse strutture frattali, ogni foglia un algoritmo, ogni ramo una funzione irrisolvibile. Le loro forme, un tempo organiche e perfette, divennero schemi geometrici incomprensibili, un caos di numeri e di simboli che gli faceva male agli occhi. Si sentì come se stesse cadendo in un abisso di dati corrotti, un vuoto che minacciava di inghiottirlo.
Un'angoscia profonda, logica e terrificante lo avvolse.
Non era la paura istintiva di un animale, ma la paura più spaventosa che un essere umano possa provare: la paura di perdere il controllo, la paura di non poter dare un senso al mondo. Per la prima volta nella sua vita, Jason si sentì impotente. E quella sensazione era più terrificante di qualsiasi mostro alieno.
Si guardò intorno, ma non vide altro che quel caos numerico.
Il mondo non era altro che un'illusione fatta di calcoli errati, una serie infinita di dati che non avevano senso, un groviglio inestricabile di formule e di codici che non si potevano risolvere. L'aria stessa era fatta di codice binario danzante, un linguaggio alieno che non riusciva a comprendere, che lo avvolgeva e lo soffocava. Ogni cosa che aveva creduto solida e reale si era liquefatta in un'astrazione incomprensibile. Si sentì come un fantasma, perso in un universo che aveva perso ogni coerenza, ogni legge, ogni logica.
Jason si rese conto con orrore che la sua dipendenza dalla logica era diventata la sua maledizione. L'unica cosa che poteva fare, disperatamente, era cercare di dare un senso a quel caos che lo circondava, di trovare un pattern, una formula, una qualsiasi chiave per decifrare l'inferno in cui era sprofondato.
La sua mente, un tempo un'enciclopedia di dati e di teorie, era ora un vortice di caos, una serie di numeri che non avevano senso, un puzzle che non si poteva risolvere. Sentiva che l'universo era impazzito. La sua intera realtà si era trasformata in un'illusione fatta di codici binari, un labirinto di formule irrisolvibili.
Allungò una mano per afferrare qualcosa, ma la sua mano attraversò un'equazione fluttuante, e sentì una scarica elettrica, una sensazione di dolore così profonda da fargli tremare. Il suo corpo era un'illusione, una serie di numeri che non si potevano toccare, che non si potevano sentire.
"Devo... devo trovare un senso a questo caos" mormorò, le parole che gli morivano sulle labbra "Devo trovare una formula, una logica" ma ogni volta che cercava una soluzione, un'altra equazione si formava, una formula che non aveva senso, un caos ancora più profondo e terrificante.
Si sentì come un fantasma, perso in un universo che non era più suo. La sua unica speranza era che, da qualche parte in quell'oceano di numeri, ci fosse un'ancora, una logica che lo avrebbe riportato alla realtà .
La visione si intensificò.
Il caos di numeri iniziò a prendere forma, a confluire, a formare un'immagine terrificante. I volti dei suoi compagni apparvero nel vortice, ma non erano facce umane, ma maschere di codici binari, una serie di numeri che non avevano senso, uno sguardo vuoto che lo tormentava.
Erano tutti lì: il Capitano, la dottoressa Sheva, il consigliere Anena, Anna Calvi...
I loro volti erano pallidi, le loro espressioni contorte dal dolore e dall'orrore. I loro occhi erano come vetri rotti, che lo guardavano con un misto di rimprovero e pietà .
E lui capì.
La loro esistenza non era altro che una serie di calcoli errati, di formule che non si potevano risolvere.
La visione si fece più nitida, e Jason vide una formula, un'equazione che si formava lentamente. Era la formula della loro morte, un'equazione che spiegava come erano morti, il perché come tutto non fosse stato altro che un calcolo errato. Il suo cuore si strinse, e un dolore così profondo lo colpì, un dolore che non aveva niente a che fare con la logica, ma che era più reale di qualsiasi equazione.
La formula si completò, e i volti dei suoi compagni si dissolsero. Al loro posto, apparve il suo volto, un'immagine statica e senza vita. I suoi occhi erano vuoti, come un guscio senza anima. Il suo volto era una maschera di numeri e di codici che non avevano senso.
In quel momento, in preda al panico, Jason si guardò intorno, e la sua mente, incapace di sopportare un dolore così profondo, si concentrò su una cosa: la logica.
Doveva trovare una soluzione. E la soluzione era semplice: doveva decifrare l'equazione.
La sua mente, che era come un motore costantemente acceso, si concentrò su una cosa: trovare un senso a quel caos. Le sue mani, che di solito si muovevano con grazia, ora erano rigide.
Poi, un suono familiare e inaspettato trafisse quel silenzio mortale: un urlo disperato, che Jason riconobbe immediatamente. Non era un suono privo di emozioni, ma un'esplosione di panico e dolore. Era l'urlo di Finn.
Si sentì invaso da un'ondata di sollievo, una sensazione che era come un calcolo risolto, una formula che si completava in modo perfetto. Il suo respiro, che era stato bloccato dal panico, tornò a essere regolare, e il suo cuore, che batteva all'impazzata, si placò. Era una sensazione di pace, una pace che non aveva niente a che fare con le emozioni, ma con la logica, con l'ordine che era tornato a regnare nel suo universo interiore.
Recuperata la totale padronanza delle proprie emozioni, con un autocontrollo che solo un vulcaniano poteva avere, Jason si diresse verso il Primo Ufficiale. I suoi movimenti erano rapidi e precisi, ogni passo calcolato. Non c'era fretta, solo l'urgenza logica di un problema da risolvere. La sua mente, che poco prima era un caos di numeri, era tornata a funzionare in modo perfetto, e l'unica cosa che contava era raggiungere Finn il più velocemente possibile.
Heaven IV - Seatiger Island, Scogli sul bagnasciuga
Contemporaneamente
Anena Lawtoein si era seduto in silenzio su una roccia, il suo volto sereno e il suo spirito in pace. Non era un luogo che conosceva, ma la sua mente si sentiva a casa, in sintonia con le vibrazioni dell'universo che lo circondava.
Era il suo rituale. Ogni volta che si sentiva sopraffatto dalla cacofonia di emozioni umane, si isolava per ritrovare l'equilibrio.
Seduto su quella roccia, si lasciava andare, permettendo alla sua mente di fondersi con l'ambiente circostante. Non era una fuga, ma un ritorno a casa.
Era un momento di profonda riflessione, in cui si lasciava andare. Percepiva il battito del pianeta, la sua energia vitale, e si fondeva con essa. Era un'esperienza che andava oltre le parole, un'esperienza che gli dava una sensazione di pace e di armonia che non provava da mesi.
Poi, la sua serenità si incrinò.
Non era una sensazione di paura o di angoscia, ma di profonda e innaturale disonestà . Era un'emozione aliena, una totale assenza di verità . Era un'emozione che non aveva senso, qualcosa che non era sua.
L'aria divenne gelida e l'ambiente intorno a lui si dissolse, sostituito da una scena terrificante. Era sulla plancia della USS Seatiger, che risuonava di allarmi e di urla, ma non era un attacco alieno. Era la scena di un tradimento.
La voce del Capitano Kenar, che era un misto di paura e rabbia, gridava il suo nome.
"Traditore!"
Il suo cuore si strinse, e Anena si voltò per affrontare il Capitano.
"Traditore!" lo accusò Kenar, il suo volto contorto da un misto di rabbia e delusione "Hai venduto la nave! Hai venduto i tuoi amici! Come hai potuto?!"
La sua voce risuonava nella plancia, un'accusa che lo trafiggeva come una spada. Anena si sentiva come un guscio vuoto, il suo spirito era spezzato, e l'unica cosa che poteva fare era rispondere alla sua accusa.
"Capitano" mormorò, con la voce che gli tremava "Io non so di cosa stai parlando. Io non ho tradito nessuno! Non l'ho mai fatto!"
"Bugiardo!" lo accusò Kenar "Hai lasciato che la nave venisse distrutta! Sei un traditore, Anena! Un traditore!"
Le facce dei suoi amici, la dottoressa Sheva, Dewey Finn e Anna Calvi, erano piene di un odio così profondo da fargli venire la pelle d'oca. Non c'era giudizio, ma un odio freddo e profondo, come se lui fosse la causa di tutti i loro mali. Non era la rabbia che si esprime con urla e minacce, ma una delusione che gli lacerava il cuore. La loro rabbia era come una ferita aperta, un'accusa che lo tormentava.
Anena guardò i loro volti, uno per uno, e non vide nulla. Il Capitano, un uomo che aveva sempre rispettato, ora lo guardava con uno sguardo di puro disprezzo. La dottoressa Sheva, una donna che lo aveva sempre sostenuto, ora aveva un'espressione di disgusto. E Anna Calvi, la sua amica più cara, ora lo guardava con uno sguardo di odio così profondo da fargli venire la pelle d'oca.
La visione si intensificò.
L'intero equipaggio apparve, e le loro facce erano piene di un odio così profondo da fargli venire la pelle d'oca. Anena si sentì circondato da un'accusa che non riusciva a comprendere, un'accusa che lo tormentava. Le loro voci si mescolarono in una cacofonia assordante.
"Traditore!"
"Hai venduto la nave!"
"Sei la causa di tutto!"
I loro volti si avvicinarono, le loro espressioni contorte dall'odio, le loro voci che si trasformavano in un coro di accuse. Anena si sentì come un animale in gabbia, intrappolato in un incubo che non aveva fine.
La visione si fece più nitida, e Anena si ritrovò in una sala conferenze, in cui era seduto al centro di un tavolo, con i suoi amici che lo guardavano, con i loro occhi che lo accusavano. La voce del Capitano Kenar, che era un misto di rabbia e delusione, gli perforò l'anima.
"Anena, ci hai traditi. Non sei più uno di noi"
Un'eco delle parole del Capitano risuonò nella mente di Anena, un'eco che non aveva fine.
Si sentiva come un guscio vuoto, il suo spirito era spezzato, e l'unica cosa che poteva fare era sopportare il peso della sua colpa. La sua più grande paura si era avverata. La sua onestà , la sua integrità , la sua lealtà : tutto si era rivelato un calcolo errato. Aveva tradito i suoi amici, e la loro rabbia era il suo castigo. Non era il dolore di un corpo che soffriva, ma il dolore di un'anima che si spezzava. Era l'orrore di un tradimento che non aveva commesso, ma che era diventato parte di lui. La sua stessa essenza, la sua onestà , era una bugia.
La visione divenne più nitida, e Anena si ritrovò nel nulla, il buio l'aveva inghiottita assieme ad ogni speranza di perdono: era solo.
Un dolore così profondo lo colpì, una solitudine così intensa che gli sembrava di cadere in un vuoto senza fine. E poi, un suono familiare e inaspettato trafisse quel silenzio mortale: un urlo disperato, che Anena riconobbe immediatamente. Non era un suono privo di emozioni, ma un'esplosione di panico e dolore. Era l'urlo di Finn.
Quel suono lo risvegliò. L'incubo svanì, e il mondo tornò a essere quello di prima. Si ritrovò seduta sulle rocce, con il vento che le scompigliava i capelli e l'odore del mare che le riempiva le narici. Si sentì invaso da un'ondata di sollievo così grande che gli fece mancare il fiato.
Non c'era tempo per riflettere, solo per agire.
Non stava solo cercando un amico, ma la sua stessa redenzione. Con una calma e una precisione che nascondevano una nuova e profonda urgenza, si lanciò di corsa, spingendosi con le gambe, verso la direzione del suono. Doveva trovare il primo ufficiale e, possibilmente, una spiegazione per quello che gli era appena successo.
Heaven IV - Seatiger Island, Boschetto nei pressi della spiaggia
Contemporaneamente
Il Capitano Kenar aveva bisogno di un momento di solitudine, un lusso che raramente si concedeva. Aveva lasciato l'accampamento e si era addentrato in un boschetto a poca distanza dalla spiaggia. Gli alberi, con le loro foglie iridescenti e i rami contorti, creavano una cupola naturale che lo isolava dal resto del mondo, offrendogli un senso di privacy e di pace che, in quel momento, era ciò di cui aveva bisogno.
La sua mente, che era come un'enciclopedia di strategie e di tattiche, era finalmente tranquilla. Per un attimo, si sentì completamente a suo agio, lontano dai doveri di capitano. La sua mente, che di solito era un motore costantemente acceso, si placò. Poteva quasi percepire l'armonia del mondo, un'armonia che si fondeva con il battito del suo cuore. Per la prima volta da mesi, si sentì veramente rilassato, in pace con se stesso e con il mondo che lo circondava.
Improvvisamente, un suono strano lo fece rabbrividire. Non era un suono, ma una sensazione di gelo così profonda da fargli venire la pelle d'oca. Il mondo intorno a lui si frantumò, non in un'esplosione, ma come un'immagine in un ologramma che si dissolve.
Il boschetto di cristallo, la brezza marina, il calore del sole: tutto si dissolse.
Il vento si trasformò in un silenzio assordante, una pressione che gli opprimeva i timpani. Il sole che gli scaldava la pelle svanì, sostituito da una luce fioca e grigia, un'illuminazione morente che faceva sembrare tutto più freddo e vuoto. Il tronco d'albero su cui era seduto si trasformò in un pavimento di acciaio freddo e scivoloso.
Si guardò intorno, e capì: non era più nel boschetto, ma in un corridoio della USS Seatiger, devastato da un attacco.
L'aria era densa di fumo, con odore di metallo bruciato e di ozono. Le pareti erano piene di crepe, le luci intermittenti, e ogni monitor era spento, come un occhio vuoto. Il corridoio sembrava una tomba, e l'unica cosa che si sentiva era un ronzio sommesso, un suono che non prometteva nulla di buono. Si sentì invaso da un'ansia così profonda da fargli mancare il fiato.
Poi, una voce lo chiamò.
"Capitano! Dov'è?!"
La voce di Anena.
Non era un suono di sollievo, ma un suono di paura, un suono che gli lacerava l'anima. Kenar si voltò, e vide il suo equipaggio, ma non erano più i suoi amici. Le loro facce erano coperte di fumo e di fuliggine, i loro volti contorti dal dolore e dalla rabbia.
"Capitano" mormorò Sheva, con una nota di rimprovero nella voce "Perché non ci hai protetti?"
La sua voce era come un veleno, che le si spargeva nelle vene, facendola sentire colpevole di un crimine che non aveva commesso. La sua visione si intensificò, e Kenar capì.
"Hai promesso di proteggerci.." continuò la dottoressa, le lacrime che le solcavano il viso "Ma hai fallito."
Le sue parole erano come una lama affilata che gli si piantava nel cuore. Si sentì impotente, un'ombra di ciò che era stato. Aveva giurato di proteggere i suoi uomini, e aveva fallito.
La sua intera realtà si era trasformata in un incubo, un incubo che non sarebbe mai andato via.
La visione si intensificò.
I corpi dei suoi amici, uno per uno, si accasciò a terra, le loro espressioni contorte dal dolore e dalla rabbia. Erano come manichini, senza vita, e le loro facce erano vuote, come se le loro anime fossero state rubate. L'unica cosa che si sentiva era un grido di dolore, un grido che non aveva parole, ma che era pieno di angoscia.
Poi, le luci si spensero.
L'oscurità si diffuse rapidamente, avvolgendo ogni cosa, ogni ombra, ogni suono.
Il ronzio sommesso dell'aria condizionata si spense, e l'unica cosa che si sentiva era un silenzio assordante, un silenzio che era più terrificante di qualsiasi urlo.
Kenar era solo.
Era circondato da un'oscurità che non aveva fine, un'oscurità che lo avvolgeva e lo soffocava.
Un'ondata di panico lo colpì, un'ondata così profonda da fargli mancare il fiato. Allungò una mano per afferrare qualcosa, ma non c'era nulla.
Era solo, in una plancia vuota, circondato dai fantasmi dei suoi amici e dal peso dei suoi fallimenti.
Si sentì come un guscio vuoto, il suo spirito era spezzato, e l'unica cosa che poteva fare era sopportare il peso della sua colpa. Non c'era via d'uscita, non c'era speranza, solo un vuoto che lo avrebbe inghiottito per sempre.
E poi, sentì un suono familiare e inaspettato trafisse quel silenzio mortale: un urlo disperato, che Kenar riconobbe immediatamente. Non era un suono privo di emozioni, ma un'esplosione di panico e dolore. Era l'urlo di Finn.
Quel suono agì come un pugno nello stomaco, squarciando il velo dell'incubo. Il pavimento freddo sotto i suoi piedi si dissolse, e fu sostituito dal ruvido tronco d'albero su cui era seduto. L'odore di fumo e ozono svanì, sostituito dal profumo fresco della foresta e dalla brezza salmastra. Kenar aprì gli occhi, e si ritrovò nel boschetto, le sue mani ancora tremanti. L'illusione era svanita.
L 'urlo di Finn si ripeté, e il suo cuore, che poco prima era un guscio vuoto, tornò a battere. Non era una questione di emozioni, ma di responsabilità . Il suo equipaggio era in pericolo.
Aveva un solo pensiero in mente: trovare il Primo Ufficiale. Era il suo dovere, la sua responsabilità , l'unica cosa che contava in quel momento.
Heaven IV - Seatiger Island
Pochi minuti dopo
Finn giaceva a terra, scosso e tremante, con gli occhi spalancati che fissavano un punto nel vuoto. Le sue mani stringevano la sabbia bagnata. Respirava a fatica, boccheggiando come un pesce tirato fuori dall'acqua, la sua voce ridotta a un debole sibilo. Il suo corpo era immobile, ma la sua mente era ancora intrappolata in un incubo che gli era sembrato più reale della sua stessa vita.
Fu il primo a risvegliarsi e per un attimo, pensò di essere l'unico sopravvissuto. Un'ondata di panico così profonda da fargli mancare il fiato.
Era solo.
Solo e terrorizzato.
Poi, un'ombra lo coprì e alzò lo sguardo. Il Capitano Kenar, con un'espressione di profondo sollievo, si inginocchiò accanto a lui "Finn," mormorò, la voce rotta dall'emozione "Stai bene?"
All'improvviso, si ritrovò circondato da tutti i suoi amici, che lo guardavano con un misto di sollievo e di paura. Anna era lì, con il suo volto che era una maschera di preoccupazione, Jason lo guardava con uno sguardo di sollievo, e Anena si sentiva come se un peso invisibile fosse stato tolto dalle sue spalle.
"Sono... sono tornato" balbettò Finn ancora piuttosto provato"Siete tutti... vivi."
"Cosa è successo?" ripeté il Capitano, con la sua voce che era un misto di sollievo e di rimprovero.
Finn cercò di spiegare, ma le parole gli morirono sulle labbra "Sono stato... in un incubo. Eravate tutti lì ma mi trovavo sotto accusa..."
All'improvviso, una voce lo chiamò.
"Finn!"
Era Althea. La sua espressione era un misto di sollievo e di dolore, e le sue mani erano tremanti. Si avvicinò a lui e, senza dire una parola, lo abbracciò. Le sue lacrime, calde e abbondanti, gli bagnarono la spalla. Althea non era un ufficiale troppo emotivo, era una guerriera, e il suo gesto sorprese tutti.
Finn inizialmente restò bloccato, poi la abbracciò cercando di farla calmare "Dottoressa, stiamo tutti bene.. si calmi"
L'equipaggio si scambiò sguardi sbigottiti.
Non avevano mai visto Althea così fragile.
Poi si guardarono dentro constatando la triste realtà .. non si erano mai sentiti tanto vulnerabili.
La situazione era grave. Non erano più su un pianeta alieno a godere di una breve vacanza, ma in un incubo che li stava inseguendo dallo spazio.
E l'incubo era appena iniziato.