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IL CENTRO - PARTE I di Llilya
3 aprile 2000

    Il centro Medico Triven Soth era strutturato per far felice il Vulcaniano più esigente: i corridoi erano essenziali, quasi spogli. Il dedalo di stanze e laboratori, tutti in perfetto ordine, era stato disposto secondo un ordine rigoroso, anche se tortuoso. Non c'erano suoni, eccezion fatta per il flebile rumore dei condotti di energia, ben dissimulati lungo le pareti.
    La soffice, curatissima moquette dei pavimenti attutiva i passi del personale, che comunque si spostava ordinatamente e pacatamente da un ufficio all'altro. Non si coglievano rumori: pareva che le persone comunicassero telepaticamente, tale era il silenzio che regnava per i lunghi corridoi.

    Selenjak alzò un sopracciglio. Possibile che tutto questo avvenisse in un Centro della Federazione? A bordo della Unicorn aveva visto l'equipaggio comportarsi in modo forse poco ortodosso agli occhi di un Vulcaniano, ma senza dubbio più affine alle diverse nature delle variegate razze presenti su una nave stellare.
    Inoltrandosi nel centro, ebbe modo di veder un numero sempre più esiguo di persone, finché si trovò a camminare per parecchi metri, senza incontrare anima viva.

    Camminò a lungo per il dedalo di corridoi deserti, guardando a destra e a sinistra, come per sincerarsi che in qualche stanza ci fossero degli esseri viventi.
    "Dove sono tutti ?", si chiese la Vulcaniana, senza volerlo.
    I suoi passi leggeri, a mano a mano che procedeva verso l'ambulatorio medico 24, sembravano diventare sempre più pesanti, sempre più rumorosi - o almeno così sembravano al suo orecchio, a mano a mano che si concentrava sempre di più sulla percezione di quell'unico, ripetitivo rumore.
    Quasi meccanicamente, si guardò intorno, come in cerca di una presenza, tuttavia il suo sguardo non incontrò ciò che stava cercando: probabilmente erano tutti a cena, dato l'orario, e le stanze sembravano ancor più deserte.

    "Sono sola", penso' suo malgrado.
    "Sola?"- si chiese, salvo poi riflettere sul'illogicità della situazione, dato che si trovava su una base piena di medici, infermieri, personale tecnico...
    Eppure la sensazione di solitudine non si attutì, ma anzi, sembrò ingigantirsi,come il rumore dei propri passi solitari: sì, era sola, terribilmente sola in quei corridoi vuoti come il fluire dei suoi pensieri.

    D'un tratto, le tornarono alla mente, quasi con nostalgia, le risa chiassose di alcuni giovani al primo imbarco, durante le pause al bar di prora; ripensò ai modi scherzosi in uso sulla Unicorn, tra le persone che avevano una certa confidenza tra loro.
    Perfino il lungo fiume di parole che ogni giorno il buon Kokokinaka le rovesciava addosso, nel tentativo (spesso fallimentare) di avviare una conversazione, d'un tratto assunse una connotazione più rassicurante.

    Forse si era abituata fin troppo alla Unicorn, pensò, e questo l'aveva portata ad usare la nave come unico termine di paragone. Decise allora di tornare col pensiero alla sua nave di ricerca, lasciata prima dell'incarico sulla Unicorn, e ancor più indietro fino agli anni di studio.
    Rivide i volti dei genitori, ancora non devastati dalla malattia, e si sorprese a pensare quanto la loro perdita avesse lasciato un vuoto nella sua vita.

    Una vita fatta di studio, laboratori, Padd, supporti informatici, applicazioni scientifiche, rigore.... e nient' altro. La presenza dei genitori aveva fatto sì che questa vita sembrasse a Selenjak l'unica possibile, ma ora, cosa avrebbe fatto?
    Improvvisamente si rese conto di considerare con orrore l'eventualità di un ritorno alla vita di pura ricerca: davvero voleva tornare a studiare, analizzare, meditare... a condurre, insomma, una vita in cui le altre persone non si affacciassero che come meteore ?

    E qualora la risposta fosse stata "no", cosa avrebbe potuto fare? La sua vita era come quei corridoi: deserta.
    Non aveva amici, e le poche persone che avevano tentato di avvicinarla erano probabilmente rimaste deluse, almeno quanto lei ne era stata in qualche modo spaventata. Evidentemente non era capace di instaurare rapporti amichevoli con le altre persone: non ci era abitauta, e probabilmente le mancava anche quella dote innata che hanno molti umanoidi, e che consente di relazionarsi anche con persone conosciute da poco,senza troppi problemi.

    Forse il suo destino era quello di restare sola; probabilmente sarebbe stato più logico continuare la sua vita come aveva sempre fatto fino a quel momento, occupandosi di cose a lei più familiari, come il lavoro, la filosofia, la meditazione, tuttavia Selenjak sentì di non volere continuare a vivere per sempre così, allo stesso modo in cui sentiva di non voler restare più a lungo in quel corridoio. Voleva uscirne. Subito.

    Affrettò il passo, e con esso anche il suo battito cardiaco, come se una presenza maligna ed invisibile la seguisse per i corridoi. Fece appello alla sua autodisciplina per non farsi dominare da un'emozione illogica quanto la paura, ma si rese conto di avere sempre minori risorse per fronteggiare quel pensiero ossessivo che a poco a poco, si faceva largo nella sua mente.
    Provò una sensazione sconosciuta ed orribile: il respiro si fece più affannoso (anche perché ormai stava quasi correndo) mentre avanzava, senza il coraggio di voltarsi indietro, per il timore di scoprire che le sue paure in qualche modo si fossero materializzate in una minaccia incombente, proprio alle sue spalle.

    Quando la situazione stava diventando insstenibile, il corridoio improvvisamente svoltò a destra, rivelando la presenza non troppo distante dell'ambulatorio 24.
    Dall'interno sembravano provenire delle voci. Selenjak affrettò ancora il passo, come se volesse "seminare" un ipotetico inseguitore ed entrò di slancio nell'ambulatorio.

    Lo sguardo sopreso dei presenti, alla vista di una vulcaniana che era entrata come una centometrista al loro cospetto, la fece tornare improvvisamente in sé.

    E vergognare.



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